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- Roberto Cingolani nuovo Ministro della transizione ecologica. Ecco il manifesto per la sobrietà digitale che ha scritto sull’Espresso, l'Espresso, 09/02/2021
Il fisico neo titolare del dicastero: "Non dobbiamo rinunciare alla tecnologia. Ma è bene sapere che ogni azione digitale ha una conseguenza sull’ambiente. Un esempio? Dispositivi, server e reti producono il doppio di Co2 del traffico aereo"
di Roberto Cingolani* 09 Febbraio 2021
La tecnologia digitale è considerata un motore di sviluppo sostenibile perché consente di dematerializzare molte attività (per esempio ridurre l’uso della carta), ridurre gli spostamenti fisici (riducendo i consumi di carburante e l’inquinamento) e migliorare i processi manifatturieri (ridurre uso di energia e materie prima). Come per tutte le tecnologie il suo uso deve essere intelligente ed equilibrato: nessuna tecnologia è “gratis” e l’uso smodato delle piattaforme digitali rischia di vanificare i vantaggi intrinseci della transizione digitale. D’altro canto in questi anni tutte le società avanzate stanno facendo uno sforzo enorme per raggiungere i valori di decarbonizzazione e di riduzione dell’uso dei carburanti fossili previsti dall’accordo di Parigi. Anche un piccolo aumento del consumo di energia dovuto a nuove tecnologie, come nel caso della digitalizzazione, assume un ruolo importante ai fini del raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità globali.
Proviamo quindi a rispondere in maniera obiettiva alla domanda “quanto è verde il digitale?"
L’impronta energetica delle tecnologie digitali, cioè l’energia consumata per usare tutte le apparecchiature digitali che sono sul pianeta (server, reti, terminali, dispositivi mobili, etc.) cresce al ritmo del 9% annuo. Tutte le apparecchiature digitali sono alimentate a energia elettrica e pertanto aumentano i consumi globali di energia. I dati che circolano nella rete sono correnti elettriche che viaggiano su cavi, o onde elettromagnetiche prodotte da antenne alimentate a corrente, o fasci di luce che si propagano in fibre ottiche, prodotti da laser che sono alimentati a corrente. I grandi server che immagazzinano e processano i dati necessitano di enormi potenze elettriche per funzionare ed essere raffreddati. Gran parte dell’energia elettrica è prodotta da sorgenti fossili e quindi tutte le tecnologie digitali producono automaticamente anidride carbonica che va ad aumentare l’effetto serra. Se si pensa che una email di 1 MegaByte produce la stessa quantità di CO2 prodotta da una lampadina da 60 W accesa per circa mezz’ora, si comprende bene come l’aumento del traffico digitale fra il 2013 e il 2018 abbia contribuito per circa 450 milioni di tonnellate di CO2 all’effetto serra globale. Proprio in periodo di pandemia Covid-19 abbiamo assistito al formidabile aumento di video streaming e dell’utilizzo di videoconferenze e televisione digitale. Queste tecnologie ci hanno consentito di andare avanti, ma hanno un costo energetico e ambientale importante: guardare un video in cloud per 10 minuti richiede la stessa energia necessaria ad alimentare 1500 telefonini per lo stesso tempo. Per capire meglio cosa significhi tutto questo cominciamo col definire i principali responsabili dell’impronta ambientale delle tecnologie digitali:
(1) I network di telecomunicazioni che comprendono Internet e tutte le reti telefoniche e telematiche, le reti di calcolatori e la rete Telex globale. Il traffico dei dati in queste reti è cresciuto esponenzialmente e ogni anno le previsioni sono riviste in aumento. Per esempio il traffico video streaming e videogiochi è arrivato oggi a circa 200 Exabyte al mese, cioè 200 miliardi di miliardi di Byte.
(2) I Data Centre, che sono in vertiginoso aumento per soddisfare la domanda di storage per cloud e analisi Big Data, sfondando il muro degli Zettabyte (1000 miliardi di miliardi di Byte) processati ogni anno.
(3) I dispositivi connessi, che includono Computer, tablet, smartphone, smart Tv, smart watch, dispositivi per domotica, sistemi bluetooth, etc. I dispositivi connessi sono passati da 200 milioni nel 2014 a circa 2 miliardi nel 2019. Gli Smartphone sono passati da 4 miliardi nel 2017 a 5 miliardi e mezzo nel 2020.
(4) L’infrastruttura di Internet of Things, il complesso di tecnologie che utilizza, robot, intelligenza artificiale, reti di sensori per automatizzare le linee di produzione e che oggi ha raggiunto circa 7 miliardi e mezzo di interfacce di comunicazione.
Ai fini del consumo energetico complessivo occorre considerare che la tecnologia viene costantemente raffinata in modo che questi dispositivi consumino sempre di meno. Tuttavia il traffico dei dati aumenta molto più rapidamente di quanto non diminuisca il consumo elettrico, rendendo sempre più pesante l’impatto energetico delle tecnologie digitali. Oggi il consumo energetico associato a tutte le tecnologie digitali nel mondo si avvicina ai 4000 TWh (TeraWatt= 100 miliardi di Watt, nel contatore di casa di solito abbiamo 3 kW cioè 3000 Watt di potenza massima). Questo dato impressionante equivale al 3% del consumo energetico globale dell’umanità (pari a 154000 TWh nel 2018). Con l’andamento di crescita attuale si prevede di raggiungere il 5% nel 2025. D’altro canto se noi volessimo stabilizzare il costo energetico del digitale intorno al 3% del consumo globale di energia dell’umanità dovremo cambiare completamente il nostro uso di queste tecnologie.
È evidente che con un consumo energetico così importante anche l’impatto sulla produzione di gas serra non è trascurabile. Nonostante una parte dell’energia che viene utilizzata per alimentare i grandi server sia rinnovabile, oggi l’emissione di gas serra dovuta alle tecnologie digitali vale circa il 4% del valore totale. A titolo di confronto l’emissione di gas serra dei veicoli da trasporto come motociclette, automobili e veicoli leggeri è circa l’8% della CO2 globale mentre quella del traffico aereo è circa il 2% (l’emissione totale di gas serra vale circa 40 miliardi di tonnellate all’anno). Con l’attuale tasso di crescita del traffico digitale c’è quindi il rischio che nei prossimi anni l’emissione complessiva di gas serra dovuta alle tecnologie digitali vada a cancellare il 20% dei miglioramenti globali faticosamente ottenuti attraverso le policy di decarbonizzazione sviluppate nell’ambito degli accordi internazionali.
Insomma, benché la digitalizzazione sia uno strumento fondamentale per migliorare la sostenibilità globale, il suo uso non regolato rischia di cancellare un quinto degli sforzi che abbiamo fatto in questi anni per ridurre le emissioni di gas serra, incidendo pesantemente sul budget di CO2 disponibile per i prossimi anni previsto dagli accordi di Parigi.
Stiamo quindi acquisendo consapevolezza che le tecnologie digitali tanto osannate nel mondo avanzato, sono energivore e, se mal utilizzate, producono più anidride carbonica di quanta riusciamo a ridurne con gli accordi internazionali. È chiaro però che la soluzione non possa essere fermare il progresso digitale, ma diventare responsabili nel suo uso. Tanto più che per i paesi a basso sviluppo la necessità di accelerare la trasformazione digitale è impellente. Sta quindi ai paesi più avanzati capire che anche la miglior tecnologia, se usata in maniera poco intelligente, fa danni.
Occorre una riflessione di natura culturale ed antropologica: l’enorme aumento del numero di dispositivi connessi in rete avvenuto negli ultimi anni, spiega infatti l’impronta energetica del digitale, ma rivela anche alcuni aspetti comportamentali e sociali di Homo Sapiens. Vediamoli.
L’aumento del traffico dati nelle reti al ritmo del 20% all’anno è dovuto soprattutto ai telefoni smart (e alle televisioni digitali). Questa crescita andrebbe stabilizzata, e in qualche modo bisognerebbe cominciare a ragionare sulla reale utilità o necessità di scambiare dati non indispensabili. Fare cioè una riflessione sulla sobrietà dell’utilizzo delle infrastrutture digitali. “Sapiens” non ha capito che postare miliardi di inutili foto su altrettanto inutili bacheche digitali è una forma di esibizionismo digitale che ha un costo ambientale che verrà pagato dalle future generazioni.
Ma come è possibile che l’utente non capisca che se i dati non circolano gratis nella rete, qualcuno debba pagare? Purtroppo, oltre al costo energetico della trasmissione del dato, si è persa anche la cognizione del valore intrinseco del dato. Infatti normalmente si acquista un dispositivo e si fa un abbonamento, ritenendo che oltre questa spesa fissa per il suo utilizzo non ci sia altro tipo di consumo. In realtà abbiamo visto che non è vero anche se non se ne vede il costo sulla bolletta: ma se il prodotto sembra gratis, allora vuol dire che il prodotto è il consumatore stesso! Ed è proprio ciò che accade quando i nostri dati vengono utilizzati a nostra insaputa per analisi socioeconomiche, politiche e di mercato o, peggio, da organizzazioni con proprie finalità. I dati hanno un valore enorme, soprattutto quelli sensibili come i dati sanitari, politici, comportamentali, perché essi vengono analizzati da algoritmi molto potenti per prevedere, influenzare, decidere o prevenire situazioni.
Un terzo importante aspetto sociologico è la creazione delle nuove disuguaglianze. Ciò che viene elegantemente chiamato “digital divide”, nella realtà è una vera e propria barriera allo sviluppo globale sostenibile. Nei paesi avanzati, la crescita media del Pil è rimasta intorno al 2% mentre la spesa per la digitalizzazione è cresciuta dal 3 al 5% negli ultimi anni. Altrove, dove non v’è crescita, il gap digitale aumenta. Nel 2018 un cittadino americano possedeva in media 10 dispositivi digitali connessi e processava circa 140 GB (GigaByte = miliardi di Byte) di dati ogni mese. Nello stesso anno, un cittadino indiano aveva in media un dispositivo connesso con un consumo di 2 GB di dati, decine di volte meno del suo pari americano. La digitalizzazione è quindi un fenomeno non uniformemente distribuito sul pianeta, ma il suo impatto ambientale è subito da tutti.
Infine, sta nascendo una nuova tipologia di debito, di cui cominciamo ad accorgerci solo ora, che in estrema sintesi chiameremo “il debito cognitivo”. Con lo sviluppo esponenziale di Internet e delle tecnologie digitali, la quantità di informazioni a disposizione di Sapiens e l’accesso ad esse sono cresciuti a dismisura e si parla ormai di una vera e propria esplosione dell’infosfera. È vero che oggi comunichiamo molto più rapidamente, e questa è una grande opportunità e una grande conquista dell’umanità, ma siamo esposti a un flusso di informazioni talmente grande che è impossibile metabolizzarle dal punto di vista cognitivo. Se l’informazione fosse luce, oggi ne saremmo completamente abbagliati: il suo eccesso sta generando danni permanenti all’ecologia della nostra mente. La conoscenza richiede approfondimento e indipendenza di giudizio, che a loro volta richiedono tempo per creare le opportune connessioni mentali (studiare!). È questo il debito cognitivo: non capire che 2+2 continua a essere uguale a 4 anche se milioni di click sostengono demagogicamente il contrario.
Non si tratta di problemi irrisolvibili, ma di cultura e di buon senso. L’incremento esponenziale del traffico dei dati è un fatto serio: non è gratis sia dal punto di vista del mercato, perché il prodotto siamo noi stessi, sia dal punto di vista ambientale, perché richiede enormi quantità di energia e produce gas serra. Sapiens deve decidere se progredire o regredire. Le tecnologie digitali sono certamente una fantastica opportunità per la civiltà e per il progresso, ma come tutte le tecnologie devono essere usate con sobrietà e con consapevolezza. Ogni azione ha una conseguenza: la prossima volta che postate una vostra inutile foto su un social pensateci!
*Fisico, ex direttore dell'Istituto italiano di Tecnologia (Iit)
responsabile innovazione tecnologica LeonardoLeggi il testo originale.
- Gino Roncaglia, L’età della frammentazione, Editori Laterza, Bari-Roma, 2020, pp. 242-245
35 Quattro tesi per il futuro
Lo scopo di questa sezione era soprattutto quello di proporre una prima riflessione sulle conseguenze dell’emergenza COVID-19 sul mondo della scuola, e in particolare sul tema specifico di questo volume: il rapporto fra mondo della scuola, uso degli strumenti digitali per la didattica e l’apprendimento, cultura del libro e della lettura.
Si tratta di una riflessione inevitabilmente ancora parziale e incompleta, che andrà integrata e probabilmente anche corretta sulla base sia dell’evoluzione dell’emergenza COVID-19 nel corso dell’anno scolastico 2020-2021, sia dei dati che saranno progressivamente raccolti in questi mesi sul lavoro di didattica a distanza fatto nel periodo di sospensione della didattica in presenza e nella successiva fase di convivenza con il virus. Credo però che sia già possibile trarre alcune conclusioni ragionevolmente chiare e definite, che dovrebbero guidare il nostro lavoro e indirizzarlo verso la progressiva uscita dall’emergenza e la costruzione della scuola del futuro; una scuola capace di rispondere in positivo anche alla sfida rappresentata dalla richiesta di competenze orientate alla complessità.
Proverò a riassumere queste conclusioni in quattro tesi che rappresentano un po’ la sintesi delle considerazioni svolte fin qui, e insieme i suggerimenti concreti che mi sentirei di dare alle nostre scuole e a chi sta lavorando per immaginare il futuro.
1. La contrapposizione fra didattica a distanza e didattica in presenza, che molti hanno purtroppo pericolosamente cavalcato nella fase emergenziale, è non solo sbagliata, ma dannosa e nociva. La scuola ha nella presenza, nell’organizzazione fisica e relazionale degli spazi, nell’interazione diretta con gli altri, una componente essenziale che nessuno si sognerebbe mai di sostituire con la pura interazione a distanza mediata dalla tecnologia. Ma la scuola è anche immersa – e per essere adeguata ed efficace deve esserlo – nell’ecosistema comunicativo più ampio della società alla quale appartiene. Una società che ha oggi nella rete, nelle tecnologie digitali dell’informazione e della comunicazione, nella varietà di codici e linguaggi, nella capacità di stabilire e mantenere relazioni anche a distanza, un aspetto fondamentale. Negarlo vuol dire non già salvare la scuola, ma condannarla alla marginalizzazione e all’inutilità. L’esperienza di didattica a distanza fatta nei mesi dell’emergenza COVID-19 non è affatto un modello per la scuola del futuro. È stata però l’occasione per capire quanto sia importante il lavoro per superare diseguaglianze tecnologiche, carenze infrastrutturali, limiti di competenza e – a volte – anche limiti nella comprensione di aspetti fondamentali della società in cui viviamo. È stata l’occasione per incontrare strumenti e metodologie di cui abbiamo bisogno, anche se nella situazione emergenziale siamo stati costretti a usarli in forme spesso innaturali e sbagliate. Una scuola inclusiva non è una scuola che rinuncia alle tecnologie perché così gli studenti sono tutti nelle stesse condizioni; un atteggiamento del genere non aiuterebbe affatto a ridurre le diseguaglianze: al contrario abdicherebbe a una delle missioni della scuola, che è quella di colmare gli svantaggi e non far finta che non esistano, preparare le studentesse e gli studenti alla società che li aspetta, e non a una versione idealizzata della società – tutt’altro che perfetta – in cui hanno vissuto i loro padri e i loro nonni.
2. I problemi della didattica a distanza utilizzata nella fase di emergenza non si sono limitati alla forzata mancanza dell’interazione in presenza: in moltissimi casi, l’assenza di competenze metodologiche e operative si è tradotta nel tentativo di replicare a distanza il modello familiare della didattica frontale, con un uso limitato ed esclusivamente trasmissivo degli strumenti di rete. In questo modo, la didattica a distanza si è trasformata in una sorta di specchio distorto, ma rivelatore delle forme più diffuse di didattica in presenza, con tutti i loro limiti. È bene guardare con attenzione l’immagine che quello specchio ci rimanda, anziché cercare di accantonarla con fastidio. Incapacità di differenziare le attività, di lavorare sugli interessi, di stimolare la collaborazione attraverso lavori di progetto, di superare la rigidità del gruppo classe e dei confini disciplinari: non l’abbiamo fatto a distanza, non perché online non lo si possa fare – lo si può fare benissimo – ma perché in molti casi non lo sappiamo fare neanche (e innanzi tutto) in presenza. Riuscire a differenziare e a volte ‘capovolgere’ le attività, a lavorare sugli interessi, a superare la totale dipendenza dell’organizzazione della didattica e dell’apprendimento dal gruppo classe e dalle barriere disciplinari, è essenziale per la scuola di domani. E queste pratiche, permettendo una migliore integrazione tra lavoro in presenza e lavoro online e una scomposizione e ricomposizione della didattica e dell’apprendimento attraverso piccoli gruppi di lavoro, possono aiutare enormemente anche a rendere praticabile e sostenibile la fase di convivenza con il virus.
3. Le biblioteche scolastiche, che già servivano prima, servono oggi ancora di più: per aiutare a organizzare e gestire attività più differenziate e orientate all’approfondimento degli interessi, per portare avanti in maniera efficace e consapevole il lavoro di alfabetizzazione informativa, per collegare in positivo – anziché contrapporre – l’eredità della cultura del libro e il mondo multiforme e orizzontale delle culture di rete[i]. Nella fase di convivenza con il virus, in cui la scuola è inevitabilmente affamata di spazi, c’è il rischio che – dove esistono – le biblioteche scolastiche vengano considerate semplicemente come uno ‘spazio utile’ in cui infilare magari mezza classe, proseguendo con numeri appena un po’ più piccoli la stessa didattica del passato. Farlo vorrebbe dire perdere un’occasione preziosa, non perché gli spazi della biblioteca scolastica non vadano usati (al contrario sono effettivamente spazi preziosi!), ma perché vanno usati coerentemente con la loro natura e la loro funzione: terzi spazi in cui costruire attività di approfondimento collaborativo degli interessi. I molti esempi di lavoro di questo tipo svolto in questi mesi – perfino a distanza – dalle biblioteche scolastiche ‘virtuose’ andrebbero ripresi e allargati, e la biblioteca scolastica dovrebbe essere considerata un tassello essenziale delle strategie per affrontare al meglio i passaggi che ci attendono.
4. Il libro e la lettura non sono in alcun modo l’unico strumento per lavorare sull’approfondimento degl’interessi, ma sono una componente fondamentale e imprescindibile di questo lavoro. La forma-libro è con noi da migliaia di anni, e nel corso del tempo si è evoluta, differenziata e allargata in corrispondenza di cambiamenti sociali, culturali e tecnologici spesso di vastissima portata. Il digitale rappresenta non una minaccia bensì un’opportunità per proseguire questa evoluzione, senza perdere l’attenzione alla complessità che da sempre caratterizza il libro e di cui continuiamo ad aver bisogno. Un bisogno che è ancora maggiore nella fase che stiamo attraversando, in cui occorre rispondere non solo alla sfida delle conseguenze sociali ed economiche del coronavirus, ma anche, più in generale, alla sfida rappresentata dal rapporto assolutamente squilibrato esistente fra ‘cultura’e ‘natura’, che comprende emergenze ancora più rilevanti, come quella ambientale e climatica. Per comprendere queste emergenze, e per costruire risposte adeguate, i libri sono risorse indispensabili. Abbiamo bisogno, più che mai, della cultura del libro: non solo come eredità del passato, ma anche come strumento per immaginare e costruire un futuro migliore.
[i] Per un approfondimento interessante e ricco di dati sulle “culture orizzontali” si veda Giovanni Solimine, Giorgio Zanchini, La cultura orizzontale, Laterza, Bari-Roma, 2020.
- È l’analfabetismo funzionale «la più grande emergenza dell’Italia», greenreport.it, Luca Aterini, 07/09/2020
- Distanti eppur connessi?, doppiozero.com, Vincenzo Sorella, 07/07/2020
- La lotta all’analfabetismo che l’Italia non deve dimenticare, internazionale.it, Francesco Erbani, 10/02/2020
- Il Rapporto Ocse-Pisa rivela la patologia cronica del nostro sistema di istruzione, Quaderno 2 - 2020. Giovanni Cominelli
- L'Italia è ultima in Europa per fondi all'istruzione, Quaderno 2 - 2020. Giovanni Cominelli
- La competenza non è tutto: cosa rivela il rapporto OCSE-PISA della nostra società, AGI.it - Pagella Politica, 28/12&2019
- John Dewey, Nuova didattica, Lucia Auriemma
- La scuola al contrario: niente materie e compiti a casa, largo a fantasia e smartphone in classe, Tecnica della scuola, Dino Galuppi, 31/05/2017
- Scuola senza materie. Niente libri, si insegnerà a “cercare su internet”, Il sussidiario.net, Niccolò Magnani, 30/05/2017
- Analfabeti funzionali, il dramma italiano: chi sono e perché il nostro Paese è tra i peggiori
Sono capaci di leggere e scrivere, ma hanno difficoltà a comprendere testi semplici e sono privi di molte competenze utili nella vita quotidiana. Nessuna nazione in Europa, a parte la Turchia, ne conta così tanti. Tutti i numeri per capire la dimensione di un fenomeno spesso sottovalutato.
L'Espresso, Elisa Murgese, 21/03/2017- “Nativi digitali”? La mera tecnologia non aiuta la Scuola, digital360.it, Marco Gui (Università Milano-Bicocca), 07/06/2016
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